martedì 27 gennaio 2009

Tim Buckley: Il "Viaggio". Tra Cielo e Terra, Estasi e Delirio



PAROLE

Parlare di un artista scomparso può essere sempre imbarazzante. E’ infatti molto diffusa una forma di necrofilia musicale, un artista da morto vale molto più che da vivo, e spesso si scatena una forma di avida incetta del materiale degli artisti deceduti, come se attraverso questo interessamento si recuperi una forza vitale. Si esorcizza la morte, si apprezza di più l’artista, si ascolta la voce dell’artista come un prodigio in cui si sfidano le leggi della vita: ci è ancora possibile, con i nostri mezzi, ascoltare la voce di un artista che non c’è più. In tutto questo gioco c’è il nostro mistero della morte che non abbiamo risolto mai e non risolveremo probabilmente mai se non vivendola in prima persona.

Molti artisti scomparsi sono stati oggetto di un qualche culto. In particolare, anche il modo in cui sono morti a volte può avere il suo peso. Tim Buckley in realtà non si può certo definire un mito. Molto di più lo sta diventando il figlio, e proprio in questo frangente vorrei ripristinare un po’ di verità e giustizia. Tim Buckley non è “il padre di Jeff Buckey”. Jeff Buckley “è il figlio di Tim Buckley” e questo deve significare tutto. I due tra l’altro in vita appena si sfiorarono, e anzi le biografie molto più copiose di Jeff riferiscono che questi avesse un serio risentimento verso il padre perché questi, in vita, non gli rivolse un consistente interesse. Al di là della sicura dedica che Tim fece al figlio di un suo brano (Dream Letter), probabilmente, come succede in molti rapporti che si deteriorano, il figlio risentì incolpevolmente del rapporto di allontanamento dei suoi due genitori. In ogni caso il filo che li lega è forte, se l’ascesa di Jeff è legata alla proposta che ricevette da Hal Willner nel 1990 affinché partecipasse al tributo per Tim, e se, senza essere morbosi, non si riconosca nel pezzo “The River” di Tim una sorta di premonizione della morte del figlio, morte tanto curiosa, e altrettanto stupida, quanto inspiegabile, se non con una sorta di “finalmente ci possiamo abbracciare e rincontrare”. Certo questi sono sicuramente i miei deliri, e non è detto che siano quelli di padre e figlio Buckley.

In più c’è da dire che mentre Jeff ha un suo registro vocale molto diverso da quello del padre (mi potrebbe ricordare molto di più Sting, Freddie Mercury e i Nirvana di Kurt Cobain) la sua ampiezza vocale e il modo in cui la utilizza lo accomuna in modo inequivocabile e indissolubile a Tim.

PERCHE’ TIM

Anch’io senza dubbio sono sempre stata vittima di questa sindrome dell’artista morto, già dai tempi di Luigi Tenco, ma a volte questo è anche un riscatto da una vita in cui non ci si sente compresi, allora sentire che un cantante morto ti dice delle cose che ti toccano ti fa stranamente andare oltre questa mancanza di tangibili rapporti umani. Quello che mi tocca di questo grandissimo artista è innanzitutto la sua sensibilità, immensa e impalpabile, grande e sottile. La sua voce è delicata, densa, enigmatica, e mentre è capace di comunicare forti sensazioni affettive, e di accarezzarti, allo stesso tempo riesce a essere fredda e trasmettere la sensazione di un universo e di un cosmo indefinibile. Sento la dolcezza di un sorriso e l’inesorabile dondolio dei pianeti e il gelo misterioso dell’universo, il calore del sole e l’indifferenza lunare. Tim Buckley ebbe un percorso artistico particolare ed enigmatico, iniziò e portò a compimento un certo percorso, fino alle estreme conseguenze. La sua esperienza di vita ed artistica non può considerarsi scissa da quella delle esperienze di droga e altri trucchi, sebbene non è lecito attribuire esclusivamente alla droga il suo modo di essere … Tim Buckley ERA così e la droga sottolineava e lo aiutava a tirare fuori questa sua tendenza all’astrazione. Anche dalle testimonianze degli amici, il suo rapporto con la droga non aveva niente di simile a quello di altri fenomeni rock (Hendrix, Joplin, ecc.), una scelta intima di momenti e non elemento fondante delle sue esibizioni live e sessioni di lavoro in sala di registrazione.

Musicalmente, pur respirando gli ascolti musicali della nonna (Billie Holiday e Bessie Smith) e della madre (Sinatra e Judy Garland), era cresciuto nel folk cowboy di Johnny Cash e Han k Williams. Ma per la voce, che fu il suo canale preferenziale, il primo input venne da Nat King Cole e Johnny Mathis. Queste influenze si amalgamarono in un suo personale attingere non nei generi ma nella “Musica”. La sua evoluzione musicale si servì dell’armonia folk, utilizzò la metodologia del jazz e free jazz, strizzò l’occhio a una certa psichedelia, riuscì a elaborare una lettura unica che si diresse verso la musica sperimentale. Quando Tim raggiunse l’apice di questa ricerca, anche sotto la sottile pressione dell’industria musicale da un lato e della sua salute psicofisica dall’altro, si spostò su un genere convenzionale. Negli ultimi album la genialità del “grande “ Tim, sembra scomparsa e riconoscibile solo in qualche passo in cui fa capolino la sua precedente sensibilità, ma, come spinto da un bisogno di fare cose semplici e di ripulirsi, gioca al rock, attraverso il rock-blues, il rithm’n’blues, strizzando l’occhio ai sound Memphis, Motown, al soul, ma non riuscendo più a essere originale e a comunicare emozoni così forti e particolari. D’altronde questo è il percorso e l’epilogo di molti grandi artisti. Dopo l’esplosione e l’evoluzione della creatività c’è sempre un riflusso. Inoltre per ognuno di questi artisti c’è una stretta connessione tra l’evoluzione della loro musica e la loro vita.

Non a caso, Tim Buckley morì proprio in un momento della sua vita che durava da due o tre anni, in cui, oltre a ripulirsi dalle droghe, si era sforzato di tenere un regime di vita, alimentare, ecc. salutista e tonico. Proprio per questo, sostiene il suo amico Lee Underwood, il mix droga-alcool quel 29 giugno 1975 gli fu fatale.

IN PRIMA PERSONA

Che Tim Buckley sia espressione del suo tempo musicale è indubbio, è noto però che da un certo punto in poi, oltre a prenderne le distanze intraprendendo un suo personale discorso musicale, manifestò in più occasioni il suo fastidio per certi esibizionismi della cultura giovanile del periodo e della musica rock; sull’antimilitarismo, ad esempio diceva “Parlare della guerra è futile. Cosa si può dire? Tutti vogliono che finisca ma si sa che non succederà. La paura è limitata ma l’amore non lo è. Io non sto parlando di tramonto tra gli alberi, io sono coinvolto dall’America, ma per la gente in America, non per i politici. Tutto quello che vedo è ingiustizia”. Verso l’esteriorità nella musica rock: “Tutto quello che si vede sono pantaloni di velluto e lunghi, biondi capelli. Una persona “perfetta” con camicie a fiori con lustrini. Questo dà a loro vibrazioni”. Altrettanto critico era verso i grandi eventi musicali del tempo e l’impatto sui valori etici, infatti non si risparmiava di esprimersi contro Woodstock, e all’amico fotografo Jerry Yester che stava per partire per il raduno disse”Ma ci vai veramente? Oh, uomo, sarai mica matto. Se cambi idea, noi stiamo sempre da un amico che ha una tenuta che è una specie di Woodstock in miniatura, con ragazze felici che girano, cibi strani, droghe, alberi e libertà.” In linea di massima si mostrava refrattario ad ogni espressione convenzionale, e a quelli che considerava comportamenti stupidi di addetti ai lavori presso i programmi televisivi; in queste trasmissioni creò più di un problema. In uno spazio che gli fu assegnato al “Julie Felix Show” in BBC, trasmissione molto strutturata, già era arrivato un’ora dopo alle prove, il regista e il suo stesso produttore si erano raccomandati perché la sua esibizione rientrasse esattamente nei tempi previsti facendogli provare più e più volte il pezzo; Tim sembrò lì per lì assecondare la pedanteria imposta per poi sostituire il pezzo in diretta con uno molto più lungo. A fine esibizione, si rivolse al produttore dicendo: “Va bene così?” In un'altra trasmissione, a Buffalo, dove pensava di esibirsi dal vivo, il conduttore lo invitò a mimare il play back che era già partito e Tim lo mandò immediatamente al diavolo in diretta. Sullo stesso genere, essendo ospite al “Tonight Show”, al conduttore Alan King che disse di trovare buffi i suoi capelli, rispose “Sai, detto da te veramente mi sorprende, io ho sempre pensato che sei un pezzo di cartone (traduzione letterale…, ndM)”. In generale non amava lo show business americano e il fatto di poter essere considerato uno strumento: “Vedi, la cosa è un po’ bizzarra. L’America è business. E se tu devi essere un americano, non importa cosa fai, si dà per scontato che tu sia un businessman. Così ad ogni show a cui mi invitano, mi chiedono: “Bene, tu fai album, così devi farli per denaro. Allora devo prendere il discorso alla larga: Uomo, tu sei di quella gente che quando Monet o Modigliani morivano di fame per 40 anni e finalmente vendevano un quadro, dici che lo svendevano… Dico, perché ti preoccupi tanto? Hai tutto il denaro che vuoi, tutte le migliori soddisfazioni – perché mi devi spingere fin dove sei tu, uomo? Perché non puoi fare tu quello che sto facendo io? Perché devi farmi vivere alla tua maniera – come io non sono, non vedi? Io vivo in una casa da 100 dollari al mese a Venice, in California, e non ho bisogno di altro. Potresti tenere il denaro lontano da me, e io potrei farlo già in ogni caso. L’ho fatto in passato e lo farei di nuovo. Tutto quello che faccio è pagare l’aereo….

EVOLUZIONE PRIVATA E MUSICALE

Nato a Washington DC (o ad Amsterdam-New York, secondo una diversa versione, il giorno di San Valentino del 1947) seguì la famiglia ad Anheim, California, costa occidentale. Oltre agli ascolti musicali in famiglia, Tim Buckley risentì del successo nella California dei primi anni sessanta della musica folk e del rock: Johnny Cash, Hank Williams, Little Richard, e poi ancor più della assonanza col song-writer Fred Neil (di cui poi cantò “Dolphins”). Con le prime esperienze musicali al College, periodo in cui nacque la profonda amicizia con Larry Beckett, poeta-paroliere di tante sue canzoni, iniziò la gavetta con un gruppo di tre elementi (Bohemians) e serate nei folk clubs della zona. La scoperta di essere vocalmente dotato era avvenuta in modo curioso: “Avevo solo 12 anni, e probabilmente cinque o sei note nella mia voce. Ascoltai la registrazione di un trombettista che suonava cose imprevedibili. Così provai a raggiungere quelle note. Little Richard ci arrivava. Era una specie di grido in falsetto. Corsi in bicicletta per il quartiere dietro gli autobus gridando finché non arrivavo a prendere le note alte… Finché un giorno non mi capitò di sentire la cosa opposta, un sax baritono, waaaay…doooown….there. Dissi “Ci sarà un modo per farlo”. Così ci provai, e gridai, e riprovai ancora, finché finalmente arrivai ad avere le mie cinque ottave e mezzo di estensione.”.

La sua evoluzione musicale fu strettamente connessa alla sua sensibilità e alla sua interiorità. Il padre aveva dei disturbi psicologici causati da traumi di guerra, e non fece che deprimere il talento del figlio. La stessa madre, che sembrava un personaggio più positivo, non finiva di dirgli che sarebbe morto giovane perché questa era la fine di tutti i poeti. In questo background che lo portò a crescere sentendosi inadeguato e inquieto, la cosa che lo incoraggò e guidò fu quindi senz’altro solamente il suo grande talento. Anche i suoi amori furono guidati dall’irrequietezza e irresolutezza. Il matrimonio in gioventù con la sua compagna di college Mary Guilbert, dovuto ad una gravidanza che si rivelò poi isterica, diventò presto la sua spina nel fianco; la nascita del figlio Jeffrey Scott era avvenuta durante l’incisione del suo primo album, quando il matrimonio con Mary era già in crisi e Tim aveva già iniziato una relazione con un’altra donna, Jane Goldstein; l’evento non fece che accrescere il suo disagio. Mentre non si dispensava da altre relazioni occasionali, soprattutto in occasione dei suoi tour, la sua partner fissa, la nominata Jane, nel momento in cui la carriera del cantante sembrò decollare ai tempi di “Happy Sad”, lo tradì, stanca del ruolo di donna-ombra della rock-star e di doverlo seguire o rimanere sola nella loro casa a Topanga Canion; infine il rapporto più riuscito con Judy Sutcliffe, che sposerà nel 1970 adottando il figlio di lei Taylor, a quel tempo di 7 anni. A questo figlio non suo fu molto più vicino che non a quello vero.

I due momenti cruciali della sua evoluzione musicale furono quando decise, nel 1969 e in concomitanza con la realizzazione del suo terzo album “Happy Sad”, di salire sul treno del Jazz East Coast, con Miles Davis, Charlie Mingus, John Coltrane, Thelonious Monk, e Ornette Coleman, assistito nella sua evoluzione dal suo amico chitarrista Lee Underwood. Questo passaggio, e l’assunzione di un vibrafonista e di un bassista acustico nel suo team di lavoro, eliminò definitivamente l’effetto dolcificante (non sempre piacevole) delle sue origini folk, mantenendone solamente la solarità.

Il secondo passo fondamentale fu, poco dopo nel 1970, l’ascolto, voluto e non casuale, di musica particolare, Luciano Berio, Xenakis, John Cage, Ilhan Mimarouglu, Stockhausen, Subotnick; in particolare Tim rimase colpito dalle incisioni di una cantante, Cathy Berberian che interpretava Luciano Berio. La frammentazione dell’armonia e l’uso della voce come produzione di suoni ma anche di rumori furono così trasfusi da Tim Buckley nel suo album più particolare, STARSAILOR.

Il prevedibile ma non considerato tracollo delle vendite di questo album, portò come conseguenza una caduta verticale sia della richiesta sul mercato del cantante, persino per le esibizioni live, sempre più relegate in luoghi di livello secondario, ma soprattutto sullo stato psicofisico di Tim Buckley, che entrò in un lungo tunnel di dipendenza da psicofarmaci e droghe.

La storia dei suoi album tuttavia traccia in modo molto più chiaro la sua evoluzione (o involuzione) musicale e interiore.

GLI ALBUM UFFICIALI

TIM BUCKLEY

Inciso in due giorni (15-16 agosto 1966), al Sunset Studio di Los Angeles, l’album ha sia la freschezza che l’ingenuità ( e quindi qualche difettuccio) dei primi album. La base musicale è molto legata alle influenze folk, ma già risente totalmente del generale fermento musicale del periodo, tanto che in alcuni pezzi è evidente la familiarità alla musica psichedelica, alla linea verde, e alle future evoluzioni di Tim. Le note di copertina lo definiscono “la quintessenza del nuovo, l’apparente sensibilità nella vera bellezza delle sue caratteristiche,.. canzoni squisitamente controllate, calme, mosaici complessi di suoni elettrici potenti… la magia dei giochi d’acqua giapponesi, voce graffiante, piena di forza e carattere, e allo stesso tempo tenera e delicata”. Molto belle WINGS, commovente e incoraggiante, VALENTINE MELODY, delicata e accogliente, SONG SLOWLY SONG, atmosfera sospesa e enigmatica, un piccolo assaggio dei futuri sviluppi musicali; IT HAPPENS EVERY TIME, solare classico 1966. L’album è molto fresco, spontaneo, piacevole e bello, normalmente a torto sottovalutato dalla critica. Produzione Jac Holzman.



GOODBYE & HELLO

Secondo album che cerca in produzione di correggere le ingenuità del primo, si presenta più robusto e convinto, budget più consistente (5000 $), una preparazione più accurata, è il giugno 1967; i pezzi sono quasi tutti di ottimo livello, rivelano sempre l’origine folk letta in chiave cosmica, gli arrangiamenti strizzano l’occhio alla psichedelia, anche se Tim Buckley è troppo particolare per rimanere intrappolato in un genere. I testi sono metà dell’amico Beckett e metà suoi. I pezzi che amo di più sono CARNIVAL SONG, un pezzo un po’ festoso e malinconico ad un tempo, sottofondo di rumori di circo e festa di strada, delicatamente psichedelico. Bellissime anche PLEASANT STREET, ONCE I WAS, KNIGHT-ERRANT e quella che considero un capolavoro di tutti i tempi, MORNING GLORY, un dialogo struggente con un barbone, sul senso e la transitorietà della vita. Ma anche gli altri pezzi non sono da meno: I NEVER ASKED TO BE YOUR MOUNTAIN, dialogo delle incomprensioni con la moglie Mary. L’album, prodotto da Jac Holzman, ha un buon successo e arriva fino al n. 171 di Billboard.

HAPPY SAD

Con “Happy Sad” Tim Buckley fa il suo ingresso nella sua “vera” musica, raffinata e originale. La base strumentale si sposta dal rock-blues al jazz, vibrafono (David Friedman) e contrabasso (John Miller) suonano jazz, guidando chitarra acustica ed elettrica che cantano blues e underground, il tutto in un impasto originale, delicato, molto armonico. I testi tutti di Tim. Una musica che scalda e che non lascia niente fuori: felicità e tristezze, come recita il titolo. Bellissime: BUZZIN’FLY, DREAM LETTER dedicata alla moglie Mary e al figlio Jeffrey Scott, dalla quale sembrano fugarsi le malignità su un assoluto disinteresse di Tim per il figlio, SING A SONG FOR YOU, una ballata delicata e malinconica. Ma anche LOVE FROM ROOM 109 risulta assai suggestiva con il sottofondo di veri rumori di mare. Produzione Jac Holzman, l’album forse sulla scia del precedente sale all’81° di Billboard, ma con un successivo immediato e brusco calo di vendite; si rivela un insuccesso.

BLUE AFTERNOON

Nel percorso di ricerca musicale, il mancato decollo delle vendite e la pressione di Tim verso un genere sempre più sperimentale mette in crisi i rapporti con la sua casa discografica, l’Elektra. Nuovi contatti lo portano alla Bizzarre di Frank Zappa e all’etichetta “minore” Straight Records, e sempre con Hal Holzman. L’esigenza è di fare un disco che sia più accetto al grande pubblico, così Tim tira fuori degli “scarti”… (da notare che aveva già inciso “Lorca” l’ultimo album con l’Elektra ancora non pubblicato). Questi scarti erano di notevole bellezza. Tant’è che ritengo questo album un po’ rimediato, uno tra i più belli. Lo stile sonoro è in linea con “Happy Sad”, ma i brani sembrano viaggiare più leggeri, delicate ballate fuori da ogni genere musicale, sembra di sentire in alcune atmosfere samba e alla stesso tempo musica orientale, la musica sembra attingere da “tutta” la musica e non collocabile in un genere. Le mie preferite sono comunque I MUST HAVE BEEN BLIND e la bellissima BLUE MELODY. Prodotto da Tim Buckley fu pubblicato in gennaio 1970.

LORCA

L’album, inciso prima di “Blue Afternoon” e prima della rottura con l’Elektra, e uscito quattro mesi dopo, rappresenta una radicale sterzata verso la musica sperimentale, ancora, si percepisce, con spirito pionieristico; ma essendo figlio di tanto padre, contiene episodi non meno belli del consueto. Cinque brani lunghissimi (il più corto 5 minuti, il più lungo quasi 10). LORCA un brano assolutamente privo di schemi, è liberamente ispirato a un brano di Miles Davis (In A Silent Way), dedicato a Federico Garcia Lorca. Interessanti I HAD A TALK WITH MY WOMAN e DRIFTIN’. In NOBODY WALKIN’ rispunta la radice rythm’n’ blues, anche se denudata e rivestita senza convenzioni. L’album fu un vero flop e vendette solo 10.000 copie. Prodotto da Herb Cohen.


STARSAILOR

Album considerato il “capolavoro” di Tim Buckley, esce in novembre dello stesso 1970; la percezione del mondo e dell’universo si esaspera, la musica e la voce raccolgono sia le forze sia le sensazioni più inquietanti, dall’altro percepiscono l’aspetto sublime della vita. Suoni particolarmente tirati e sperimentali, una chitarra percossa ed esasperante; due canzoni sembrano interrompere il delirio, con la grazia della melodia. MOULIN ROUGE è un’aggraziata ballata francesizzante (con il testo di Larry Beckett) e Song To The Siren, meravigliosa e delicata canzone, molto più di una poesia.




GREETINGS FROM L.A.

1972. Base ritmica abbastanza robusta e serrata. Tim cerca di esprimersi come di consueto ma su un mezzo nuovo, non più la musica onirica di evoluzione folk jazz, ma un vero rock & roll, sostenuto da basso e batteria. Ottime le chitarre. In almeno un pezzo, come appare chiaro in questi suoi tre ultimi album “leggeri”, emerge lo stesso la sua sensibilità sotterranea. In SWEET SURRENDER, anche se l’impostazione e l’arrangiamento del pezzo sono in linea col resto dei pezzi, emerge la sua tendenza a creare dei tappeti sonori sui quali la mente si distende. Bello l’arrangiamento, il cantato “emotivo” e il finale che lascia un senso di “sospeso”, com’è nel migliore Tim Buckley. E “Hong Kong Bar” (lenta, strascicata e interessante)


SEFRONIA

1973. L’album più bistrattato dai soloni della critica, a mio avviso scopre la natura dolce e semplice della persona, e anche se in un insieme poco coerente vedi il pezzo a due voci, piuttosto easy listening, I KNOW I'D RECOGNIZE YOUR FACE, l’arrangiamento disco di BECAUSE OF YOU, ci sono almeno tre-quattro pezzi molto belli. Dolphins, di fred Neil, “MARTHA di Tom Waits, e le due “Sefronia”, due romanze molto concentrate, testo scritto dal fedele e a volte un po’ "usato" Larry Beckett, in cui, anche se ripulito dalle emozioni più estreme, troviamo un ricordo del vecchio Tim navigatore di stelle.



LOOK AT THE FOOL

1974. Album in cui forse la creatività di Tim B. è ancora più piegata alle forzature del business, è un album piacevole, di chiara impostazione funk-rhytm’n blues, molto vicino al sound Memphis, Tamla. Anche la voce tenta di essere più nera, più soul. Anche nel titolo la volontà della produzione (Descreet) prevalse, lui avrebbe preferito “Tijuana Moon” o “American Dream”.

Occorre dire che nessun pezzo prevale sugli altri, né in senso positivo e neanche in senso negativo. I pezzi, piacevoli, restano su un livello qualitativo medio e in certi momenti, dispiace dirlo, prevedibile e basso. Al di là del piacere di ascoltare comunque la sua bella voce alle prese con qualsiasi cosa, alla fine non rimane traccia di nulla.

Nel complesso sembra che Tim se ne fosse già andato un po’ prima di realizzare questo album.



APPENDICE

VALENTINE MELODY

Sei venuta da me con il fuoco dentro / I tuoi movimenti e il tuo orgoglio / E chiedendo di essere salvata dal dolore che è cresciuto in te / Io ti portai via lontano dalla prigione / e ti ho nascosto nella mia mano / Nella luce blu di Natale Babbo Natale fu gentile / Mi domando se crescerai mai / Oh gettare Via le bugie di no e di sì abbastanza lontano / Ed amare la mia tranquillità / O soltanto gelare o aggrottare le sopracciglia o perdere tutto quello che hai trovato? Nella luce bianca della Pasqua e del mare vivrai ancora? Oggi la moneta è nell'aria / E siamo qui e là / E dove e quando siamo stati catturati nella rete della violenza / Prego per tutto il mondo che quel giorno porti il sole per tutti / Nel colore scarlatto della luce di Valentine i nostri cuori di carta sono ciechi

WINGS

Malgrado tu avessi parlato molte volte prima, Una visione della nascita ti lascia fuori dalla porta. Ed ora sai che lui non ti capisce. E tutto quello di cui hai bisogno è il calore della sua mano. E se lui ti sorridesse il tuo sangue che ama danzerebbe, un bacio silenzioso ti lascerebbe attonita. E adesso sai che non puoi vivere più sola, Ma ti accorgeresti che il tuo futuro non lo conosci. Ogni giorno le domande aumentano. Sulle ali del caso stai volando. E quel giorno le vostre risate e lacrime moriranno, e cadono libere come gli uccelli marini scalano i cieli. E amerai quando l'amore viene per la tua strada. E quando questo avverrà non avrai più niente da dire. E adesso sai che lui non capisce, E adesso sai che non hai più bisogno della sua mano. Un giorno le domande muoiono, Sulle ali del caso stai volando. Ogni giorno le domande aumentano. Sulle ali del caso stai volando.


ONCE I WAS


Una volta ero un soldato Ed ho combattuto su sabbie straniere per te / una volta ero un cacciatore E ho portato a casa carne fresca per te /una volta ero un amante / Ed ho scrutato i tuoi occhi per te / e presto ci sarà qualcun’altro / a dirti che ero appena una bugia / E a volte mi domando / Appena per un istante / Mi ricorderai / E anche se mi hai dimenticato / Tutti i nostri stupidi sogni / Mi scopro a cercare / Attraverso le ceneri delle nostre rovine / Per i giorni in cui abbiamo sorriso / E le ore che correvano selvaggie / Con la magia dei tuoi occhi / Ed il silenzio delle nostre parole / E a volte mi domando / Appena per un istante / Mi ricorderai?


BUZZIN FLY


Proprio come una mosca che vola / Entro nella tua vita / Ora galleggio via / Come miele al sole / Era giusto o sbagliato / In ogni modo non canto quella canzone / Oh, ma cara / Adesso ricordo / Come il sole si rischiara / E come ha scaldato la tua preghiera sorridente / quando tutto l'amore era là/ Tu sei quella di cui parlo / Tu sei quella a cui penso / Ovunque vada / E a volte, amore, di mattina / Signore, mi manchi così / E’ come se mi trovassi a casa / E’ come se mi trovassi a casa / Oh, ascolta le montagne cantare / Signore, posso sentire gridare, cara, il tuo nome / E dimmi solo se sai come il fiume scorre verso il mare / Adesso voglio sapere Tutto di te / Voglio sapere Tutto di te / Che cosa fa il tuo sorriso / Che cosa mi fa amare questa strada / Cara voglio sapere / Cara voglio sapere / Camminare mano nella mano / E lungo la spiaggia / Un uccello marino conosceva il tuo nome / Sapeva che il tuo amore stava crescendo / Signore, penso che sapeva che stava crescendo attraverso me e te. / Ah, dimmi cara / Quando dovrei lasciarti, / Ah, dimmi cara / non voglio farti soffrire … / Proprio come una mosca che vola / Entro nella tua vita / Ora galleggio via / Come miele al sole / Era giusto o sbagliato / In ogni modo non canto quella canzone

DREAM LETTER

Signora il tempo vola via / Sono stato a pensare al mio ieri / oh, ascolta ti prego cara le mie preghiere vuote / dormi dentro i miei miei sogni stanotte / E tutto quello di cui ho bisgono stanotte siete te e il mio bambino / Oh, è un soldato o è un sognatore? È il piccolo uomo della sua mamma? Ti aiuta quando può? O ti chiede di me? Appena come un ragazzo soldato / Io sono fuori a combattere guerre / Di cui il mondo non sa nulla / Ma io non vinco mai con forza / Non c’è una folla intorno a me / Ma quando mi metto a pensare / Ai vecchi giorni / Quando l'amore era qui per restare / Mi domando se abbiamo mai provato / Oh, cosa darei per trattenerlo

I MUST HAVE BEEN BLIND

Eccomi a credere ancora alle parole / Eccomi a cercare ancora di trovare il tuo amore / Eccomi di nuovo in ginocchio / a pregare per un amore / Che pensavamo di conoscere ./ Tutti e due sappiamo / Quanto è difficile amare / E lascia andare / Tutti e due lo sappiamo / Quanto è difficile vivere in questo modo / Quanto così pochi capiscano cosa significhi / innamorarsi / E così pochi sanno quanto è difficile vivere senza / devo essere stato cieco / Devo essere stato cieco Signore, devo essere stato cieco / Per valutare qualcosa di reale / E non crederci / Per vivere nella sua vita / E non fidarsi mai / di dare tutto quello che conosci e non senti mai / Per tenere indietro ogni giorno / Via finché non muore / Noi due sappiamo / Quanto è difficile amare / E lasciarlo andare / Tutti e due sappiamo / Quanto è difficile andare avanti / vivere in quel modo / Quando così pochi capiscono cosa significa / innamorarsi / E così pochi sanno com’è difficile vivere senza / devo essere stato cieco / Devo essere cieco Signore, devo essere stato cieco

THE RIVER

Vivo vicino al fiume / E mi nascondo via da casa / Allora proprio come il fiume / Posso cambiare le mie abitudini / Oh, se vieni ad amarmi / tu vorresti restare per sempre / nel mio cuore / dentro i miei sogni / Ed il tempo sbiadirà / nel tempo ci ameremo / Nella strada che percorriamo come mendicanti / Nei re infedeli del sentiero / Ah, ma è la verità della vita / Quello che ci incatena l’uno all’altro / Quegli ultimi momenti che rubiamo / Per mantenere vivo il nostro amore / Ed il nostro premio così stanco dopo che tutti i dolori e tempo si sbiadiranno / Nel tempo ci ameremo.